La vita come speranza – di Maria Rina Virzì Lanza

Immaginando di rievocare le dolci sensazio­ni del suo arrivo al mondo,Francesco Lanza così scrive:

“Fuori il sole di luglio splendeva, la campagna era piena di spighe, c’era nel­l’aria l’odore denso e refrigerante delle pesche e delle albicocche (…)”1

Era il 5 luglio 1897, Francesco nasceva.

“(…) Agata entrava e usciva, con la faccia delle grandi occasioni, come se fosse a parte d’un segreto che non poteva assolutamente rivelare a nessuno; il babbo si voltava di scatto, l’inseguiva per due o tre passi, e con la trepidazione d’un fanciullo all’avverarsi di un evento stra­ordinario le faceva la solita, laconica domanda: – Ebbene? (…) se Dio lo mandava, era il benve­nuto, per non dire addirittura che giunge­va a proposito. Lo avrebbe chiamato come il padrino che già gli destinava, con lo stesso nome cioè del santo al quale era intitolato il bellissimo podere che aveva comprato il giorno avanti(…) Passai di braccio in braccio, trion­falmente, come un prodigio. Tutti, anche la Calamara [la levatrice], sembravano impressionatissimi del mio arrivo al mon­do, all’infuori di me stesso, che conti­nuavo a manifestare con ridicole smorfie e vagiti la mia desolata disapprovazione, il mio inconsolabile disappunto, Che ero venuto a farci nel mondo? perché tutta quella gente mi faceva festa? (…) Solo io piangevo”.2

 Questi brevi stralci tratti da Arrivo al mondo ci presentano subito un lato del suo temperamento chiaramente improntato alla malinconia e all’iper­sensibilità, Certo è molto difficile intravedere questo aspetto pessimistico nelle pagine lanziane, in quanto l’Autore, soprattutto nei Mimi Siciliani, sembra voglia nascondere la sua vera natura sotto una maschera ridanciana, Solo nell’epistolario, Sicilia come trappola, Lettere a Corrado Sofia, e in qualche brano delle prose, possiamo scorgere la malinconia dell’Autore.

Francesco Lanza era il quarto di sette fratelli (il padre Giuseppe, avvocato, era stato sindaco di Valguarnera dal 1879 al 1881), la madre si chiamava Rosaria Berrittella, II nome Francesco è imposto dal padre per legarlo a quello di un bel­lissimo podere da poco acquistato: San Francesco.

Forte era l’attaccamento alla famiglia, religiosissima, di stampo patriarcale, affettuosa­mente presieduta dal nonno materno, un burbero e bonario medico all’antica, tipico pater famlias.Il Lanza dedica commosse pagine di prosa ai ricordi d’infanzia e descrive le care abitudini della sua famiglia usa a riunirsi in casa dei nonni, in occasione di festività, Dalle pagine traspaiono la dolcezza della mamma Rosaria e la soavità della nonna. La burbera ma buona zia, la affaccendata domestica, i gravi discorsi tra il nonno e il papa, allora giovane avvocato, il gioco dei garzoni, conferiscono coralità alla scena. Le descrizioni non offrono solo una documentazione biografica lanziana, ma presentano costumi di vita siciliana che, ancora oggi, felicemente sopravvivono in alcune famiglie dell’Isola:

“Allora era in casa dei nonni che si faceva la cena di Natale, La piccola ta­vola di tutti i giorni diventava immensa per accoglierci, Non restava quasi più spazio in quella stanza stretta e bassa e col soffitto a travi dalle quali pendevano le lunghe reste di pere e mele fragranti e i grappoli d’uva conservati per l’inverno, La tovaglia era la più bella, di lino di Fiandra, le stoviglie di maiolica, le posate di argento con la cifra, quelle dello sposalizio dei nonni, Tutto era luminoso e pieno di festa, (…) nel ri­posante gaudio che era nell’aria la zia perdeva la sua abituale severità e ci concedeva di gustare in anticipo un dolce o un poco di quell’insalata che era la sua specialità, La nonna (…) appariva più bianca e maestosa, col grande viso ovale, levigato e malinconico come un medaglione d’avorio (…).  Tutta la gente di ser­vizio era in moto, Agata per l’occasione aiutava bravamente Rosa e la zia, mettendo il becco da per tutto, mentre noi intanto per ingannare l’attesa giocavamo alle nocciole coi garzoni.II nonno e il babbo venivano su all’ul­timo, accalorati e sorridenti, continuando con piacevolezza i discorsi gravi inta­volati nello studi.  Quella sera essi si trovavano perfettamente d’accordo su tut­to, non c’era la minima divergenza fra le loro idee sull’agricoltura, sulla politica e sulla religione, La mamma, il cui viso era più roseo e gioviale del solito, se ne stava silenziosa a sentire e a la fanciullezza e il suo cuore s’era guardare con una timida dolcezza d’invitata, ma era felice che quella festa fosse nella casa dove aveva trascorsa aperto ai primi incante­vol sogni”.3

 II rispetto per gli anziani, l’unità della famiglia all’antica, è felicemente documentata dalla descrizione di un brindisi familiare, fatto dall’austero ma benevolo nonno:

 “Infine, in un silenzioso improvviso e pieno di una gioiosa aspettazione, il nonno alzava il bicchiere e con la sua voce grave e sentenziosa faceva un lungo sermoncino, di cui riuscivamo a capire soltanto nel suo pieno significato la frase finale: «Alla vostra salute!», Ri­sonavano le nostre grida, i bicchieri tintinnavano armoniosamente, e il babbo, in preda a una fanciullesca letizia che gli sfavillava dagli occhi, alzava di nuovo il suo e guardando la mamma, che continuava a sorridere con la stessa ti­mida dolcezza, diceva con festosa solen­nità; «Alla fortuna e alla felicità dei nostri figlioli!», Questo brindisi aveva per noi una straordinaria importanza, perché il nonno, nonostante avesse già bevuto il sorso di vino che s’era versa­to, cosa veramente insolita, riempiva con gravità il bicchiere fino all’orlo e lo vuotava lentamente, rivolgendoci attra­verso il cristallo uno sguardo benevolo e luminoso”.4

 Lanza crebbe nel paese in cui era nato, Valguarnera Caropepe (allora provincia di Caltanissetta, oggi di Enna). L’educazione impartitagli dalla famiglia avrebbe lasciato una traccia profonda nell’animo dello scrittore, che ebbe sempre presente, sin da piccolo, un notevole senso di responsabilità dinanzi al dovere, A responsabilizzarlo doveva essere stato il nonno materno:

“II nonno era di poche parole, non apri­va bocca che per un ordine o un rimpro­vero, Facevamo la via in silenzio, Lui e la zia non ammettevano che si potesse stare senza far niente, crogiolati nella propria pigrizia, A nessuno era concesso riposo più del necessario, anche in vil­leggiatura; non me ne sarei stato tutto il giorno sotto gli alberi a gingillarmi coi grilli o al fiume a solleticare con un filo d’erba le idrometre natanti (,,,). Il nonno, obbedendo alla sua natura georgica, avrebbe potato, buttato giù gli alberi morti, rialzato le siepi cadenti (…), Io avrei portato, per la mia parte, le pietre per le siepi, mondato le bacchet­tine d’olmo e le canne per i canestri; avrei dovuto ogni dopopranzo raccogliere i frutti che caduti per il vento dai rami ricoprivano fitto il terreno”.5

 Se il nonno fu educatore severo, ancora più rigido fu il maestro del piccolo Lanza:

 “II mio maestro era un prete terribile, dalla faccia, le spalle e i piedi larghi come Platone. La bacchettina di ferro che teneva infilata nella manica donde, al­l’improvviso, sembrava uscire come un serpente da una buca per avventarsi sulla punta delle nostre dita, ci faceva tre­mare, specialmente quando col vocione col­lerico egli ci chiamava alla lavagna o, a faccia a faccia col mappamondo (…)6

Inserito in un sano ma rigido ambiente familiare e scolastico, il Lanza andava maturando la sua for­mazione, Compiuti gli studi di base a Valguarnera, frequentò la scuola secondaria a Catania, al liceo classico «Spedalieri», dove conseguì la licenza liceale nel 1915, Lì conobbe, studente pure lui, il Navarria, al quale sarebbe rimasto legato d’amicizia fino alla morte. Scrive Navarria a Giuseppe Greco; «Ci conoscemmo nel 1911 nel quartino che i Lanza avevano in via Naumachia (…) e ci ritrovammo insieme nella quarta B del ginnasio Spedalieri».All’agosto di due anni dopo (all’estate quindi che precede l’iscrizione alla prima liceale) risale la prima poesia di Francesco, l’“Ode all’amico compìto” dedicata al fraterno amico Cristofero La Spina. Una poesia di che, rivelando talento precoce e grande sensibilità, evoca gli smarrimenti dell’adolescenza ed il faticoso percorso verso l’età adulta.

Catania attraversava un periodo di particolare floridezza culturale; erano gli anni di De Felice, Rapisardi, Capuana e De Roberto e dello stesso Verga che già da tempo viveva lontano dalla scena letteraria, amareggiato dagli sviluppi e situazione politica italiana. Di questa Catania, “criticabile ma viva”, e di questi uomini, non rimane traccia nell’opera di Lanza, forse ancora troppo giovane, in quell’epoca, per frequentare ambienti politici e letterari. Verga, però, dovette qualche volta incontrarlo, e l’ammira­zione per lui è provata dalla «solenne ed epicheggiante» pagina dedicatagli nell’Almanacco per il popolo siciliano:

“Sappiate, o contadini, che una volta visse in questa benedetta terra un uomo chiamato Giovanni Verga. Fino a poco tempo fa, chi andava a Catania poteva vederlo seduto dinanzi al casino dei nobili, una gamba a cavallo dell’altra, gli occhi lucenti come un innamorato, i capelli tutti bianchi: aveva ottantanni”.8

Ultimati gli studi liceali, Lanza si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Roma, laureandosi, però, a Catania nell’autunno del 1922; con una tesi su Giuseppe Proudhon, La tesi risente dell’esperienza della guerra al fronte e dell’agitato dopoguerra ed è improntata, sin dall’inizio, a un ragionato pessimismo, Così scrive, fra l’altro:

“A noi della presente generazione è toccato in eredità un compito formidabile. Pagati di persona gli errori della guerra, constatati nelle loro varie fasi gli in­successi della pace antipacificatrice, il problema della Guerra e della Pace resta per noi pressoché insolut., Che la guerra abbia ucciso la guerra non pare per evi­denti segni; e che la pace ci abbia ve­ramente portato in dono la Pace non pos­siamo affatto riconoscere per la dura esperienza d’ogni giorno”.

E prosegue con lucida premonizione:

“Da un lato la guerra che si dichiarava redentrice dei popoli oppressi e punitrice dei popoli oppressori, e che fu accettata dal nostro entusiasmo giovanile perché, oltre ai suoi immediati scopi nazionali, avrebbe dovuto segnare la morte d’ogni altra guerra, non ha potuto completamente mantenere le sue promesse; dall’altro, la pace mostra tuttavia le conseguenze di un simile disagio, e a un occhio attento svela altresì nascoste profonde incrinatu­re alle fragili basi, appare cioè come preparatoria di non lontane e forse più terribili guerre”.9

 Gli anni trascorsi a Roma gli dettero la possibilità di conoscere molti poeti e narratori che arricchirono i suoi spiccati interessi umanistici. Sono esperienze importanti, incontri deci­sivi; ma che non seppero mai allontanare lo scrittore dal suo paese così lontano dai grandi centri e alle prese con problemi di sussistenza.

Valguarnera prima comunicava con le città lontane per mezzo di «trazzere» o vie vicinali, Solo nel 1876 fu costruito lo stradale che andava a Dittaino, la stazione ferroviaria più vicina per con­giungere il paese con la stazione di Catania, La ferrovia a scartamento ridotto arrivò da Dittaino a Valguarnera nel 1910.

A questo proposito mi sembra utile richia­mare l’attenzione su un delizioso brano tratto da Storie e terre di Sicilia, che Lanza dedicò alla città di Enna, nel quale mette in rilievo le estreme “difficoltà” delle comunicazioni stradali e i lunghi tempi di percorrenza che occorrevano per andare da Valguarnera in qualsiasi altro piccolo o grande paese della Sicilia:

“Per noi che ci siamo a quattro passi, che l’abbiamo sempre davanti gli occhi, irta spesso di classiche nebbie che più che nasconderla la fanno più evidente (,.,); per noi che siamo si può dire della stessa parrocchia e ci paghiamo le tasse, andare a Enna è come andare alla Mecca. Se avessimo una macchina da correre standoci comodamente seduti, il meglio sarebbe arrivarci in mezz’ora per l’iti­nerario ovidiano e plutonico rifatto a ritroso al modo dei grandi”.10

 Con una certa ironia, lo scrittore aggiunge:

“Non avendo macchina di sorta, se non una da fare il caffè, lasciamolo a ma­lincuore questo viaggio ai mugnai e ai bifolchi del mio paese, nobilitati dal peso e dalla misura, che settimanalmente si recano in fretta e furia in provincia a brigare per le loro magagne. (…) Date le nostre possibilità di gente alla giornata, volendo potremmo farlo a piedi o con più stile e riferimento a dosso di ciuco, Ma non essendo di tutti i giorni lo scopo turistico e passionale, e amando anche noi fin dove si può comodo e agio (,,,) Non ci resta che il mezzo più pratico; quotidiano e anonimo, da non restare grati a nessuno, del treno; ma tre ore di viag­gio tra coincidenze, trabalzi, scartamento ridotto, linea ordinaria e autobus per trenta chilometri di distanza è un bello sforzo”.11

 Riflettendo su quella che era la situazione in quegli anni, ci rendiamo conto che, per l’inadeguatezza delle strutture e delle enormi difficoltà che si dovevano affrontare per spostarsi da un posto all’altro, anche il più vicino, nonostante molte siano state le trasformazioni politiche, economiche e sociali che hanno contraddistinto gli ultimi de­cenni, sono rimaste le “classiche nebbie” di cui parla Lanza. Scrive Pavolini: «Lanza era tipo che bi­sognava definirlo all’antica»12. Pur affascinato dalla vita moderna e di­namica di Roma, consapevole della profonda miseria che intristiva gran parte della Sicilia, sapeva guardare con speranza al mondo semplice e rurale, amando non solo i contadini, ma anche le tradizioni più antiche della sua terra. E se la lontananza dalla città costituisce certamente un limite all’affermarsi sociale, la vita in taluni paesini interni diventa la salvaguardia essenziale di certi valori, che mori­rebbero una volta inurbati.

 “Non si parla delle città, dove gli usi hanno una maggiore dispersione pubblica, si correggono secondo dettami continentali e si frantumano contaminati, ma nei paesi e nei borghi sulle montagne le tradizioni resistono ancora alle esigenze dei tempi con una patetica e florida fierezza, e tutti gli avvenimenti memorabili rivelano sempre il lor fondo rustico e la lor di­scendenza georgica”.13

                 Questo brano è la preziosa indicazione della squisita sensibilità narrativa dello scrittore e della sua cordiale disposizione verso la ricerca di temi poetici che conservano il calore delle cose di casa, L’unità della famiglia, la parentela, sentita profondamente come autentico legame di sangue, che induce a riunirsi per festeggiare le solennità, l’apertura verso la gente, che invoglia a incontrarsi senza sofismi, il dono dell’ospitalità, sono profondi valori che resistono, fortunatamente, in luoghi dove la difesa delle tradizioni continua nonostante il dilagare di certe mode, tendenti a considerare su­perata non solo la tradizione ma anche l’etica.

            Le lettere che lo scrittore indirizza all’amico Aurelio Navarria, negli anni vissuti a Roma, documen­tano l’eccezionale varietà e vastità delle sue letture; Aristofane, Luciano, Aretino, Virgilio, Ovidio, Ariosto; classici italiani, scrittori moderni e con­temporanei; Rebora, Flaubert, De Maistre, Montaigne, Roumanille, Mistral, Cechov; scrittori politici e storici; Marx e Lenin. Lo scrittore si appassionò allo studio del Pitrè, del Verga e del Meli, che vengono considerati suoi maestri.

Lanza nutrì ammirazione, seppure con delle riserve, anche per D’Annunzio:

 “(…) mè capitato in questi giorni fra le mani il Notturno dannunziano, e ho pensato che è proprio il retoricissimo D’Annunzio che ha fatto un’opera d’arte magnifica coi mezzi dei giovani”.13

 II 6 agosto del 1916 morì a Gorizia il fratello An­tonino, tenente di fanteria a Peuma, vittima della prima guerra mondiale (decorato di due medaglie d’argento al valor militare: vedi).

Alla sua memoria il giovane Autore dedicò dei componimenti poetici percorsi da tristi venature foscoliane e scritti sui metri di una classicità tutta car­ducciana. In quegli anni Francesco Lanza venne precisando sempre di più i contorni della propria vocazione di scrittore”.14

Questa vocazione era improntata a un «neoclassicismo rondista» (a contenuto popolare inedito), non estra­nea agli influssi del «clima vociano e alla moda del frammento».

 Scrive Francesco Lanza all’amico Aurelio Navarria:

“Ho pensato leggendo Boine: anche noi siamo dei vociani. Smania di cultura e delirio dello stile, Facciamo insciente­mente in modo che la immaginazione resti sopraffatta e compressa, Ma arte è prima immaginazione, dopo è questo equilibrio tra immaginazione e stima, Ma una sopraf­fazione non ci deve essere né di qua né di là, Noi invece, più ci piace il periodo che il senso, più cioè il frammento che la novella (tu più di me), più il grido che la scena, più il monologo che il dialogo, più l’io (anche nel famoso obiettivismo) che l’altrui (con l’io).15

 Anche se catalogato tra “rondisti e postrondisti”, Lanza non doveva stimare molto la corrente della Ronda, almeno a giudicare da quanto scrive al Navarria:

“Leggo di questi giorni il testamento letterario di Leopardi, edito dalla Ronda, Ove ci sono (in costoro della Ronda) buone intenzioni, ma disgraziatamente completa incapacità di attuazioni, È strano che degli esseri superficiali e frammentari si siano con tanta passione riaccostati al grande costruttore moderno (…) Ma sono sicuro che non costruiranno mai niente; cattivi discepoli di cotanto maestro”.16

Da lettore, il Lanza diviene ben presto scrittore, Le sue prime composizioni sono Poesie di gioventù, com­poste dal 1919 al 1921 e pubblicate nel 1926, Le liriche sono “ispirate a tonalità dannunziane e cre­puscolari” e sanno di esercizio letterario, “documen­tano tuttavia l’avvio di una esperienza, di una ri­cerca estetica giovanile che troverà un’altra via più fruttuosa”.

Come si evince dal foglio matricolare (qui riprodotto), Francesco Lanza viene chiamato alle armi nell’agosto del 1917. Nell’ottobre è allievo ufficiale a Modena. Dal febbraio all’agosto dell’anno successivo frequenta la Scuola Allievi Ufficiali di Ravenna e, quale sottotenente di artiglieria, viene successivamente coinvolto negli ultimi sprazzi della guerra. Nel gennaio del 1920 a Caltanissetta, dove si trovava in servizio di pubblica sicurezza per lo sciopero dei ferrovieri, si ammalò di febbre spagnola, Gli restò leso un pol­mone.

Dopo quella breve esperienza il giovane co­minciò a interessarsi di politica e nel 1920 fondò a Valguarnera, osteggiato da tutta la borghesia del paese la prima sezione del partito sociali­sta, divenendone segretario.17 Egli stesso narra i primi passi di quell’e­sperienza su “II Proletario” di Caltanissetta del 1921, La sezione del partito socialista era sorta in via Alighieri, nella casa a pian terreno di don Piddu Fidemi. Gli iscritti al partito erano giovani studen­ti, operai, zolfatai, artigiani, agricoltori; e nono­stante fossero diffidati dal maresciallo dei carabi­nieri a non circolare il giorno delle elezioni, allo scrutinio furono trovate circa 800 schede socialiste. Valguarnera, come già detto, era allora il centro antifascista più importante della provincia.18 In una lettera del 28 agosto 1921 a Navarria si legge:

“Furono eletti all’unanimità l’Avv. Lanza Francesco Segretario politico; il ragioniere Scarlata Antonio, Di Benedetto Giovanni, Lo Presti Antonio, Consiglieri; Greco Giuseppe, Vice Segretario».19

 Scrive Lanza:

“II fatto della mia politica. Una cosa seria di cui rido come un pazzo, Uno spa­vento borghese c’è e come! E calunnie, insinuazioni, minacce, eccetera come ad un vero uomo politico. Ma a scartamento ridotto, tutto. Io ci rido, loro ci si ro­dono il fegato. Mi dicono: senti qua tu sei bravo figliolo, ma t’hanno traviato i libri. Ah! quei libracci bisognerebbe bruciarteli, E poi, che speri? d’aver seguito? Resti solo come un cane, perché noi ti compriamo tutti i socialisti per quindici lire e mezzo. E poi quanti siete? venti? e quanti pazzi? ventuno? Va là, smettila, Pensa al tuo avvenire – Io resto in stile, sornione, duro e non intervistabile”.20

II tono della lettera è abbastanza divertito, e mette in evidenza una personalità certo combattiva sotto l’ardore neofita degli entusiasmi giovanili, ma nello stesso tempo la sottaciuta consa­pevolezza che non era certo nell’impegno politico che lo scrittore pensava di risolvere i propri progetti per il futuro, Non si trattava, in definitiva, di una scelta di vita, Lanza fu, nota acutamente Sciascia, socialista di «un socialismo senza storia».21 II suo socialismo, più che da convinzioni ideologico-politiche, era dovuto a ragioni umanitarie, deside­rava un miglioramento della classe contadina.

Poi s’iscrisse al partito fascista; è di quel periodo la fotografia ritraente lo scrittore con Mussolini.22 Ma il fascismo di Lanza (come quello di Pirandello) «fu il frutto dell’onesta illusione ili cui alcuni fra i migliori caddero, che Mussolini, oltre all’ordine, volesse riportare anche la giusti­zia, soprattutto alle plebi diseredate».23 Infatti, in quel periodo, il fascismo aveva elaborato dei provvedimenti e aveva stabilizzato l’ordine sociale nelle campagne, Ci sono prove testimonianti la sanità morale del Lanza che mai brigò per il fascismo. Aiutò infatti un compaesano, Peppino Loggia, di idee socialiste a fuggire in America, per eludere le persecuzioni del regime.24 Rifiutò la direzione del giornale “II Tri­colore”, offertagli da Telesio Interlandi che ebbe a dire: «Io non ho mai sentito una resistenza così ter­ribile e pur così naturale, come quella che Lanza opponeva al mio aiuto (…)».25 Appena si seppe che Pirandello, Panzini e Bontempelli avevano accettato la nomina di “accademici” dal fascismo, Lanza non resistette alla ten­tazione di scrivere la prosa caricaturale: Il colletto di Pirandello, secondo una dichiarazione orale del fratello Vittorio Lanza, ma su questa prosa non abbiamo trovato altra notizia, Scritti fortemente ironici sul fascismo sembrano le Norme per la divisa del sig. Accademico n. 2, che alludono a letterati ingaggiati dal regime.26

Gli svariati interessi che possedeva lo portarono a occuparsi anche di teatro, e per questo compose alcuni lavori. Appassionato lettore dell’Ariosto, egli scrisse le sue opere teatrali durante un lungo periodo di convalescenza trascorso a Valguarnera tra il 1921 e il 1923, nei suoi poderi di San Francesco e di Cafeci, Compose nel 1922 la favola drammatica ariostesca Fiordispina, pubblicata nel 1928, L’atto unico Corpus Domini, prima di essere rappresentato con successo al teatro degli Indi­pendenti di Roma, con la regia di Anton Giulio Bragaglia, il 18 febbraio del 1927, era stato pubblicato nel 1924 sul N° 5 di “Galleria” di Roma. II testo fu poi riproposto su “Dramma” N° 330, nel 1940, con il nuovo titolo di Giorno di festa. Poi Lanza si cimentò in una farsa dialettale in tre atti dal titolo Il Vendicatore che fu pubblicata postuma, nel 1974, per iniziativa di Salvatore Rossi (nella collana di testi teatrali inediti o rari di autori siciliani diretta da Carmelo Musumarra). Va ricordata, infine, la commedia in tre atti Cosa darei per sapere come è fatta una donna e l’atto unico Una moglie brutta.27 I temi dell’amore, dell’adulterio, dell’e­rotismo, caratterizzano l’opera di Lanza commediografo in un clima drammaturgico attraversato da forti suggestioni pirandelliane.

Nel 1922, il Lanza entra a far parte del mondo del giornalismo letterario, Scrive vivaci articoli sul “Corriere di Sicilia” che si stampava a Catania. A Roma, nel 1923, è chiamato da Ardengo Soffici a collaborare alla terza pagina del “Corrie­re Italiano” e, nel 1924, alla rivista “Galleria”.

Nel 1923 compaiono i primi saggi delle Storie di Ni­no Scardino, nome del mezzadro dei Lanza,28 poi per suggerimento di Ardengo Soffici le storie ebbero come titolo definitivo Mimi Siciliani. L’Autore scriveva: «L’opera è in decisa opposizione a tutta la letteratura corrente (…) e, nella forma, si riattaca necessariamente a Verga; per la sostanza il modello di riferimento (forse) è Roumanille, Insomma, «folkloristica, popolaresca, azzardata, sorniona, di nocciolo duro e lettera­riamente senza valore (…)».29 Tra i primi lettori dei Mimi figurano; «(…) Baldini, Ungaretti, qualche altro frequenta­tore della redazione, [che stavano] curvi a gustar con lieto stupore l’attico sale, la delicatissima freschezza, la sobrietà classica di quelle storielle tutta maliziosa filosofia».30 La composizione dei Mimi Siciliani continua sino al 1927 e molti vennero pubblicati fra il 1926 e il 1927 su “La fiera letteraria”, nella rubrica “Cambusa”. Nel 1928 l’Autore li raccolse in volume,

Insieme con Vera Gaiba compila un volumetto di letture per le scuole elementari La Spiga (Torino, Paravia, 1927),

Nel 1923, Francesco Lanza compose 1’Alma­nacco per il popolo siciliano per desiderio di Giu­seppe Lombardo Radice, che combatteva l’analfabetismo a quel tempo pesantissimo in Sicilia e vedeva nel potenziamento della scuola popolare un valido ausi­lio per la campagna di alfabetizzazione indirizza­ta soprattutto alle classi contadine dell’isola, L’Almanacco fu pubblicato dopo un anno dalla stesu­ra. Nacque così un almanacco popolare, pieno di letture, di notizie e di consigli pratici utili al contadino. Nella lettera che segue possiamo trovare una spiegazione sull’intento che ha indotto Francesco Lanza a comporre l’Almanacco; «In ogni modo io scriverò l’Almanacco; anzitutto perché mi alletta e mi porta di botto in un campo a me caro (e mio tormen­to): La fantasia popolaresca…».31

Nel 1925 e nel 1926, l’Autore fa girare i suoi scritti da “II Resto del Carlino” a “L’Ambrosiano”, da “II Lavoro Fascista” al “Giornale di Si­cilia”,

Ritornato a Valguarnera, Lanza apre, ma con poca fortuna, una bottega di calce e gesso, Poco do­po, completamente negato per i “negotia”, chiude bottega. Nel 1927 viene rappresentato, al teatro degli Indipendenti di Roma, l’atto unico Corpus Do­mini, ribattezzato poi Giorno di festa.32 Ma col teatro Lanza non ebbe fortuna; Angelo Musco si ri­fiutò di rappresentargli II vendicatore perché, a suo giudizio, troppo audace.

A Enna, nel dicembre del 1927, Lanza fondò il “Lunario siciliano”, un periodico mensile al quale collaborarono autorevoli letterati del tempo come G. Centorbi, A. Navarria, E. Cecchi, R. Bacchelli, T. Interlandi. II giornale nel 1929, per motivi economici, fu trasferito a Roma, in via della Mercede 9, l’al­lora redazione de “II Tevere”, ma subì una seconda interruzione, Qui, oltre ai collaboratori già citati si registrarono le firme di Ardengo Soffici, Silvio D’Amico, Giuseppe Ungaretti, Elio Vittorini, Vitaliano Brancati, Corrado Sofia, Enrico Falqui, Stefano Landi, Luigi Pirandello. Ritornò infine alle stampe nell’aprile del 1931 a Messina, sotto la direzione di Stefano Bottari (vi collaborò, fra gli altri, il poeta dialettale Alessio Di Giovanni), in assenza del Lanza ammalato a Valguarnera, ma ne vennero pubblicati solo tre numeri prima della sua definitiva cessazione.

Lanza, con il Lunario siciliano, pensava di pubblicare un periodico trimestrale per il popolo con leggende, poesie, proverbi e notizie utili di agri­coltura, commerciali e di vario genere.  Si trattava dei sogni di un poeta in quanto il Lunario, pur avendo consensi e prestigiose colla­borazioni, ebbe vita breve e incostante, I redattori di questa rivista di letteratura popolare avevano assunto come motivo ispiratore la fedeltà all’inse­gnamento verghiano e del Pitrè.

Nel 1928 svanisce per Lanza anche la pos­sibilità di collaborare alla “Stampa”, per avere stroncato un libro di Curzio Malaparte:

“Tanto io quanto tu abbiamo perduto la possibilità di collaborare alla Stampa: Malaparte ce l’ha con noi per quella stroncatura del suo libro, La cosa mi dispiace perché si trattava di guadagnare 400 lire ad articolo! Che Dio la mandi buona al Malaparte!33

 

Nel 1928 Lanza lavora a Roma come redattore de “II Tevere”, sulle cui pagine cura una rubrica umoristica di Ercole Patti soprannominato il “Signor Pott”. Lanza si firmava con lo pseudonimo il collega del signor Pott, Su “II Tevere” vengono pubblicate storielle siciliane, descrizioni di paesi siciliani, storie cavalleresche, prose classiche e moderne.

Nelle prose posteriori ai Mimi Siciliani, raggruppate in Fanciullezza Paese, l’Autore da il meglio di sé, giungendo a un equilibrio di forma e contenuto. Nel 1929 e 1930 fu redattore de “L’Italia Letteraria”, diretta da G.B, Angioletti, dove con­tinuò le rubriche “Cambusa” e il “Mercante in Fiera”, Mentre è redattore de “II Tevere” (in cui pubblica le sue impressioni sul viaggio in Sardegna), collabora ancora a “II Resto del Carlino”, “La Fiera Lette­raria”, “L’Ambrosiano”, la “Gazzetta del Popolo”. Nel maggio del 1930 segue il viaggio di Mussolini in Toscana.

In quegli anni il Lanza appare stanco e debilitato nel fisico e nello spirito. In seguito alla febbre spagnola, contratta nel 1928, gli rimase leso un polmone; più tardi, in seguito a una caduta da cavallo, riportò serie conseguenze che lo indus­sero a sottoporsi a continue cure ricostituenti e a saltuari periodi di riposo nei poderi di Cafeci e san Francesco.34

Lanza tuttavia non evitava, sebbene soffe­rente, il logorio del duro e snervante lavoro di redazione:

“Faccio una vitaccia: ti dico solo che lavoro di notte alla… cronaca! Non pen­savo mai di andare a finire così. Fortu­natamente ne ho per poco; sostituisco un redattore che tornerà a metà giugno, Dopo, se non resterò al giornale, ma con un lavoro meno sfibrante e umiliante, tornerò ai patri lavori (…)”.35

 Per motivi di lavoro, accettò, nel 1930, di recarsi con Corrado Sofia in Ungheria, Romania, Polonia e Russia, Ma quel viaggio lo aveva profon­damente turbato, aggiungendo così alle sue precarie condizioni di salute una crisi spirituale dalla quale stentava a riprendersi. Lui, che nel 1920 aveva fondato la sezione socialista, crede che l’URSS sia il luogo dove si sta sperimentando una società nuo­va, basata sulla ragione e la fratellanza. La sua delusione è grande quando tasta con mano il comuni­smo reale, per esempio quando lui e Sofia si imbat­tono in un gruppo di prigionieri che stanno per es­sere fucilati; oppure quando, alla stazione di una città ucraina, gli si presenta un “trozkista” che ha in tasca la tessera del Partito comunista, fin dal 1905, e racconta ai due giornalisti italiani che di quel partito non esiste più nulla. Infatti Lanza, tornato in Italia, del suo viaggio in Russia non scriverà nemmeno una riga,36 a costo di perdere il compenso che Interlandi gli aveva promesso e di cui aveva un cocente bisogno tanto da scrivere all’amico Sofia, d’essere pronto a vendere la sua macchina per scrivere pur di saldare il debito contratto con lui. Non soltanto era rimasto deluso e sconvolto da quanto aveva veduto,

“ma le critiche che avrebbe rivolto a quel regime [sovietico] avrebbero secondo lui rallegrato alcuni signori del suo pae­se i quali gli erano profondamente ostili, non ammettevano l’attenzione che egli nu­triva per la povera gente dei campi”.37

 Così ha scritto Sofia nel commemorare l’amico. E se Sofia aveva scritto decine di articoli in cui è raccontato il come e il dove del comunismo reale, Lanza sceglie, come già detto, sicilianamente, orgogliosamente, la strada del silenzio. Un silenzio da uomo d’onore, un reportage sofferto ma non scrit­to, abbandonando definitivamente le tesi socialiste sostenute nella prima giovinezza. Con grande amarezza scrive al Navarria:

 “Ormai non credo affatto alla libertà, alla giustizia e alla felicità sociali (i regimi in ogni caso c’entrano poco) né tanto meno alle arcadie sanguinanti, inu­tili, bestiali e inintelligenti, delle così dette rivoluzioni popolari, da quella di Robespierre a quella di Lenin (…) A Mosca, mentre la folla non soltanto degli ex borghesi, ma di operai, e di donne coperte di stracci facevano per sei o sette ore sotto il nevischio, la coda dinanzi i negozi per mezzo litro di latte e una libbra di pane nero e colloso, nei ricevimenti al commissariato degli Esteri noi pranzavamo con forchette d’oro, va­sellame di Sèvres, cristalli di Boemia, una trentina di antipasti, cinque o sei specie di vini e di liquori (…), Questa la giustizia sociale!

Le tasse? Ti confesso che vorrei ve­derle centuplicate fino al totale stroz­zamento della proprietà privata, nostra miserabile catena e del corpo e dello spirito (…).38

 Tu sai che io non ho avuto nulla dal fascismo, da otto mesi anzi sono in cerca di un impiego che mi permetta di vivere in pace senza l’ossessione di dover tramutare in racconto o in articolo di terza pagina la pagina bianca e i miei amici, perso­naggi più o meno influenti del fascismo, non si curano o non sono capaci di farmi avere un buco anche nell’Eritrea o nel Giuba dove ho chiesto d’andare nonostante le mie condizioni, ma con tutto ciò, dopo quello che ho visto e per la conoscenza che ho degli uomini, sono e resto fascista (…)

Ti dirò che se dovessi abbandonare definitivamente la speranza d’andarmene altrove, non solo accetterò ma brigherò di diventar segretario politico o podestà per vedere se con un po’ di fascismo bene applicato non sia possibile insegnare un po’ di civiltà non dico al popolo che soffre la fame ma ai villanzoni del cir­colo, dei feudi e delle farmacie”.39

 Queste parole piene di sdegno sembrano dettate non tanto da un credo politico, ma piuttosto dall’esigen­za umana che vuole salvaguardare l’uomo, per non vederlo schiacciare da ingiuste strutture socio-politiche. L’epistolario con l’amico Corrado Sofia, che recentemente ha voluto raccogliere sotto il titolo Sicilia come trappola,40 testimonia lo stato d’animo del Lanza, provato da tante sofferenze e nello stesso tempo costituisce l’estrema, dolorosa testimonianza del rapporto odio-amore che legò lo scrittore alla sua terra, che se da un lato la Sicilia era l’unica, insostituibile fonte d’ispirazione dell’intera sua opera letteraria, dall’altro fu la causa della sua esasperazione psicologica e morale, dell’inaridimento della sua vena, Infatti, negli ultimi due o tre anni della sua vita, inchiodato nella natia Valguarnera, Lanza non riuscì più a scrivere altro; e nelle lettere a Corrado Sofia forse potrà trovarsi la chiave del suo involontario silenzio.

Io sono in campagna, – scriveva – dove ho ormai la mia sola casa d’abita­zione, bloccato dalla noia, dalla dispe­razione e dal più ventoso e piovoso au­tunno. Un albero d’arancio quest’anno è pieno di frutti e mi nutro di vitamine. Leggo Balzac, mentre diluvia: l’ossessione del denaro che è in queste pagine si im­padronisce miseramente di me”.41

 La madre, cui era legato da profondo affetto, gli venne a mancare nel novembre del 1931, gli amici sembravano averlo dimenticato, non si curavano di trovargli un lavoro che l’aiutasse a condurre una vita meno grama, La capacità creativa del Lanza si andava esaurendo e gli riusciva sempre più difficile scrivere, Nemmeno più fortunato era in campo sen­timentale, si era perso in una passione per Jole D’Amico, una cara compagna di liceo soprannominata “Jobobic” ma non era mai nato un legame stabile, definitivo. Jole D’Amico si era poi sposata con un ufficiale tedesco assai più giovane di lei.42 Un certo presentimento di fine prematura assaliva di tanto in tanto l’Autore, che già a venticinque anni scriveva:

“(…) io non ho certezza di vivere a lungo, nelle migliori delle ipotesi posso vivere quanto Morselli; perciò ho fretta di dare una giustificazione alla mia vita, soprattutto di fronte a me (…).43

Nel 1931 Francesco non sembra affatto con­tento della sua vita, non riesce a giustificarla e confessa;

 “A che parlarti di me? (…), Ho in odio me stesso e il mondo: il senso della ro­vina materiale e intellettuale, d’una vita perduta da ricominciare non so com. Sono alla ricerca d’un impiego che mi possa salvare da questa situazione disperata, dal pericolo di non so che espediente paz­zesco. La miseria che c’è in paese – c’è della gente che muore letteralmente di fame – contribuisce a demoralizzarmi, I vinti hanno sempre torto, Mi sento inuti­le, e questo aggrava il mio morale gravemente scosso”.44

                Qualche conforto al suo cuore lacerato è dato dalla fede cattolica cui, nell’ultimo periodo della vita, si era riavvicinato. La fede cattolica lo aiutava a sperare in un avvenire più roseo, in un lavoro affrontato con maggiore entusia­smo, magari allietato dall’affetto di una famiglia che, Lanza aveva sempre desiderato crearsi; nel 1932, non gli sembrava più un sogno irrealizzabile, si era invaghito di una “divina fanciulla”:

“Credo che sposato potrò lavorare a queste cose [allude al proposito di com­porre nuovi racconti] e se avessi una base economica sicura non dispererei di dare un segno delle mie possibilità (…). E al­lora mi sposerò. Cattolico apostolico romano penso alla santificazione del matrimonio (…)”.45

Intanto, sentendosi un po’ rasserenato, si recava a Tripoli, nel maggio del 1932, dimorandovi alcuni mesi, I Mimi Arabi nacquero in seguito a questo viaggio.

Lanza conciliò, con qualche compromesso, cristianesimo e spiritismo di cui era stato sempre appassionato cultore partecipando a numerose sedute spiritiche con Peppino Loggia che faceva da medium. Così informava l’amico Navarria:

 “(…) io sono qui in pieno spiritismo; non arricciare il naso, e non pensare che mi lasci trascinare dalla suggestione(…) I misteri, sotto il magico potere del tavolino di Peppino Loggia, si spalancano (…) Sei in errore sul mio ardore di neofi­ta; si tratta soltanto di un fenomeno del quale voglio rendermi conto. Come ti scrissi, questo non aggiunge nulla alla mia fede, e tanto meno potrebbe mutarl. II terreno sul quale poggio i piedi è forte e sodo, e il cattolicesimo è albero così vasto che può comprendere anche la piccola fronda dello spiritismo ( …)”.46

 In seguito a un’iniezione, fatta con ago non ste­rilizzato, lo scritture veniva colto da grave malore mentre si recava a Roma dove l’amico Corrado Sofia era riuscito a trovargli un lavoro. Ma durante il viaggio è costretto a fermarsi a Catania, perché colpito da una setticemia che lo inchioda prima nella solitudine disperata di un albergo da “cocottes” e poi lo porta a Valguarnera dove si spegneva dopo pochi giorni, Più che mai profetici tornano al­la memoria alcuni versi dell’Autore, che sintetiz­zano la sua breve vita

“Vivremo per sempre alla giornata

con lo struggente pensiero del domani,

tutto sarà incerto e provvisorio

come svegliarsi

giorno per giorno in un’isola deserta.

(…)

la speranza farà sempre punto e daccapo,

anche la morte ci coglierà alla sprovvista”.47

 

Qualche giorno prima della morte, scrivendo a un amico, Lanza lamentava la solitudine di cui soffriva a causa dell’indifferenza degli amici:

“Mi ero l’altro ieri messo in viaggio per Roma, ma in treno sono stato colto da una febbre tale che ho dovuto fermarmi all’albergo, Si tratta d’una iniezione suppurata con sintomi di setticemia, Per due giorni e due notti ho delirato con la febbre a 41, solo come un cane, Ora la febbre è a 39, Ho telegrafato a parecchi amici vicini, ma tutti si sono limitati ai semplici doveri di cortesia, Questa soli­tudine mi da una maggiore disperazione. Aspetto domani mio fratello per tornare a casa: ricado nella trappola, è proprio il mio destino. Mi sarà molto più difficile ora pensare a partire: sia per i soldi, sia perché non ho più biglietti, e quello che feci non sarà certo ancora usufruibile,

(…) Scrivimi a Valguarnera – e spe­riamo che anche questa passi”.48

 Lanza, spegnendosi dopo sei giorni, morì il 6 gennaio 1933, partì lo stesso per un lungo viaggio, che nessuno immaginava facesse così presto, Nella casa natale, dettata da Arcangelo Blandini, sono state scolpite queste parole:

IN QUESTA CASA DOVE ERA NATO

MORÌ LO SCRITTORE FRANCESCO LÀNZA

(5 LUGLIO 1897 – 6 GENNAIO 1933)

IN BREVE TERMINE DI VITA

CONSEGUÌ

PERSPICACE SENSO DELLE COSE UMANE

MISURA DI STILE E NITIDEZZA D’ARTE

ASCOLTÓ LE VOCI PROSSIME E LE REMOTE

CONTEMPERÓ MEDITAZIONE E SORRISO

ESPERIENZE E AFFETTI

IN SINTESI DI POESIA

Quella di Francesco Lanza appare una vita segnata, ma senza quelle stimate tragiche che possono trasfor­mare l’esistenza in destino. Quanto c’è di tragico nella vicenda di Lanza è l’avvolgente avvertimento di una situazione da cui non riesce a trovare una via d’uscita, vissuta dunque nella dimensione schopenhauriana della irresolubilità.

Le notizie, ricavate dalle lettere che egli scrisse all’amico Corrado Sofia, costituiscono un documento eccezionale; ci aiutano a calibrare lavita di un uomo e insieme di una coscienza infelice, mentre ci danno il risvolto drammatico della con­dizione intellettuale in un paese siciliano lungo gli anni Trenta. La fuga dalla Sicilia di quegli anni assomiglia­va a una vera e propria diaspora. Molti giovani scrittori: Elio Vittorini, Vitaliano Brancati, Alfredo Mezio, Arcangelo Blandini, e altri tentarono di evadere. Alcuni ci riuscirono; altri, come Blandini, tornaro­no indietro o, come Lanza, non riuscirono a trovare consistenza o pienezza di realtà. Eppure a Roma Francesco Lanza venne accolto e trovò spazio. Probabilmente il suo temperamento e la sua situazione, non gli consentirono di restare fuori dalla Sicilia, almeno quanto sarebbe stato suffi­ciente per assicurargli un qualche ruolo, come non gli consentirono di tagliar corto, prendere di petto la vita, rovesciarla e installarvisi. Lanza tornava in Sicilia, forse inconsapevolmente ne sentiva il bisogno, forse sentiva il bisogno di poterla avver­tire come una prigionia soffocante, per continuare ad avere il desiderio di un’altra vita, Un termine diverse volte adoperato nelle lettere, è un termine inequivoco e perentorio: «scappare… scappare», variamente ripetuto

«Maledetto paese» dice del proprio. Chiama la Sicilia «trappola», «gabbia infernale», La parola trappola variamente ripetuta voleva significare la difficoltà che il vivere in Sicilia gli procurava. La Sicilia diventava così situazione coinvolgente, forza ineluttabile, peso insopportabile. Questa sensazione lo accompagnò durante gli ultimi anni della sua breve esistenza, un’ossessione dalla quale non riuscì a liberarsi, La sua solitudine gli procurava frenesia e angosce, quasi presentisse che lo scacco era a portata di mano, ne sfiorava l’orlo come davanti a un abisso. Ma nonostante tutto voleva uscire da quella che chiamava «situazione disperata».

Aveva speranze, progetti, pensava alle tante cose da scrivere, si allontanava più volte dalla Sicilia, faceva viaggi, ma poi il suo malin­conico demone tornava ad assalirlo:

“Mi pare, nell’inutilità di questi gior­ni – scrive il 27 settembre del 1932 – ch’io debba ancora incominciare a vivere, sicché la mia vita non è che una speranza di vita, l’amore, la tranquillità di spi­rito, l’arte, la possibilità di bastare a me stesso, una casa dove posare il corpo, cioè la sicurezza della vita e il pensiero tranquillo della morte”.49

 Sono cose calme ed essenziali. Ma è come se le at­tendesse, non sembra faccia nulla per trovare una consistenza, «La vita come speranza di vita» diventa l’equazione assillante che percorre la sua esistenza, ma dove si insinua il sospetto di non poter riuscire a realizzare nulla di questo essenziale. Lanza è come se introduca una forma di remissività laboriosa, la cocente fermezza che comunque è necessario procedere, andare avanti, e insieme la cauta e sinistra consa­pevolezza della sconfitta presentita come tempesta che incombe.

Quella vita vissuta come speranza di vita, forse era una prospettiva di morte.

*****

 NOTE

  1. Francesco Lanza, Arrivo al mondo, in Mimi siciliani e altre cose, Firenze, Sansoni, 1946, p. 221.
  2. Ibid., pp. 221-222, 222-223, 224, 226.
  3. Francesco Lanza, Coniglio alla portoghese, in Mimi e altre cose, cit., pp. 240-241.
  4. Ibid., p. 243.
  5. Francesco  Lanza,  Villeggiatura,  in  Mimi  e altre cose, pp. 253, 254.
  6. Ibid., pp. 252-253
  7. Lettera di Aurelio Navarria a Giuseppe Greco
  8. Francesco Lanza, Prose dall’Almanacco per il popolo siciliano, Enna, Papiro Editrice, 1985, p. 15.
  9. Francesco Lanza, II diritto della guerra e il diritto della pace nella concezione di Proudhon e nel nuovo diritto internazionale, Tesi di laurea, Catania 1922.  
  10. Francesco Lanza, Enna, in Storie e terre di Sicilia e altri scritti inediti e rari, a cura di Nicola Basile, Caltanissetta-Roma, 1985, p. 127.
  11. Ibid., pp. 128, 129.  Corrado Pavolini, In memoria di Francesco Lanza, in “L’Italia  letteraria”,  Roma,  15 gennaio 1933, p. 3.
  12.  Francesco Lanza, Febbraio in Sicilia, in Sto­rie e terre di Sicilia, cit., pp. 189-190.
  13.  Francesco Lanza, Lettere agli amici, in “Gal­leria”, cit., Settembre-Dicembre 1955, p. 257.
  14. Salvatore Di Marco, La storia incompiuta di Francesco Lanza, Palermo, Ila Palma, 1990, p. 16.
  15. Francesco Lanza, Lettere di Francesco Lama ad un amico, in “Quadrivio”, Roma 1940, p. 3.
  16. Antonio Di Grado, Il mondo offeso di Francesco Lanza, Acireale, Bonanno Editore, 1990, p.10.
  17. Sulle prime scelte ideali e politiche di Fran­cesco Lanza pare abbia in qualche modo influi­to lo zio paterno Filippo Lanza, di radicali idee socialiste, e fondatore, con altri, della Camera del Lavoro e della Lega Agricola a Piazza Armerina nei primi anni del secolo.
  18. Come si ricava da una intervista a Saverio Greco, figlio di Giuseppe Greco, amico di Lanza (vedi anche).
  19. Antonio Vitellaro, Lanza corrispondente del “Proletario?”, in “Nofilter”, Caltanissetta, genn-febb. 1985, p. 15.
  20. Francesco Lanza, Lettera all’Amico Aurelio Navarria, scritta da Valguarnera il 20 dicembre 1921, in “Nofilter”, cit., p. 7.
  21. Salvatore Di Marco, La storia incompiuta di Francesco Lanza, cit., p. 19.
  22. Ricavo la notizia da una cognata di Lanza, Adelina Nicoletti.
  23. Francesco Lanza, Il vendicatore, a cura di Salvatore Rossi, Catania, Società di Storia patria per la Sicilia Orientale, 1974, p. 9.
  24. Notizia avuta da Filippo Lanza, nipote dello scrittore. Peppino Loggia era uno stagnino autodidatta che amava intrattenersi con il Lanza e conversare di filosofia, religione e spiritismo, e fu l’amico che assistette lo scrittore nel momento ultimo della sua vita.
  25. Telesio Interlandi, Francesco Lanza, in “Il Dramma”, Torino, 15 maggio 1940.
  26. Francesco Lanza, Norme per la divisa del sig. Accademico n. 2, in Storie e terre di Sicilia, cit., p. 258.
  27. In: Francesco Lanza, Teatro edito e inedito, a cura Sarah Zappulla Muscarà, Catania, Tringale, 1975.
  28. Notizia riferitami dalla nipote di Francesco, Titti Lanza.
  29. Salvatore Di Marco, La storia incompiuta di Francesco Lama, cit., pp. 21-22.
  30. Francesco Lanza, Sui «Mimi Siciliani», in Sto­rie e terre di Sicilia, cit., p. 273.
  31. Francesco Lanza, Storie e terre di Sicilia, cit., p. 18.
  32.  In: Francesco Lanza, Teatro edito e inedito, cit.
  33. Lettera del 2 maggio 1929 indirizzata al Savarese.
  34.  Notizia riferitami da Franca Lanza, nipote dello scrittore, in occasione di un’intervi­sta.
  35. Francesco Lanza, Sicilia come trappola. Lette­re a Corrado Sofia, Siracusa, Edizioni dell’Ariete.
  36. Giampiero Mughini, A via della Mercede c’era un razzista, Milano, Rizzoli, 1991, p. 89.
  37. Francesco Lanza, Mimi Siciliani, Prefazione, Roma, Edizioni Il Lunario, 1991, p. 1.5.
  38. Francesco Lanza, Sicilia come trappola. Lette­re a Corrado Sofia, cit., p. 24.
  39. Francesco Lanza, Storie e terre di Sicilia, cit., p. 11.
  40. Francesco Lanza, Sicilia come trappola. Lette­re a Corrado Sofia, cit.
  41. Ibid., p. 92.
  42. Da una testimonianza di Titti Lanza, sembra che la famiglia D’Amico avesse rifiutato la mano della figlia Jole in quanto il Lanza non aveva un lavoro stabile. Si sarebbe ripetuta la stessa sorte che inizialmente aveva subito Nino Savarese con la sua Maria Savoca.
  43. Francesco Lanza, Lettera di Francesco Lanza ad un amico, cit., p. 75.
  44. Francesco Lanza, Lettere agli amici. Lettera ad Aurelio Navarria, in “Galleria”, Caltanissetta-Roma, Aprile 1955, pp. 258-259.
  45. Francesco Lanza, Lettere di Francesco Lanza ad un amico, in “Quadrivio”, cit., p. 5.
  46. Francesco Lanza, Lettere agli amici. Lettera ad Aurelio Navarria, in “Galleria”, cit., pp. 261-262.
  47. Francesco Lanza, Vivremo sempre alla giornata, in Storie e terre di. Sicilia, cit., p. 268.
  48. Francesco Lanza, Sicilia come trappola. Lette­re a Corrado Sofia, cit., p. 94.
  49. Francesco Lanza, Sicilia come trappola, Lette­re a Corrado Sofia, cit., p. 83.
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